Un tema ciclicamente ricorrente nel dibattito politico è cositituito dalla discriminazione fondata su una diversa considerazione della figura della donna rispetto a quella dell’uomo, che va sotto il nome di sessismo.
Chi pone un sesso in posizione subordinata rispetto all’altro, assume una condotta non conforme ai principi ispiratori della nostra costituzione, che all’art. 3 attribuisce pari dignità a tutti i cittadini della Repubblica, senza distinzione, tra l’altro, di sesso. Sempre in costituzione, viene stabilito che la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini (art. 51), e che la donna lavoratrice (art. 37) o elettrice (art. 48) vanta i medesimi diritti dell’uomo, accede agli uffici pubblici e alle cariche politiche (art. 51) e che gli ostacoli fondati sul genere devono essere rimossi anche al livello regionale (art. 117).
Vi sono poi norme di rango legislativo che puniscono la condotta discriminatoria fondata sul genere. Valga per tutti l’esempio del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 che ha introdotto misure volte ad eliminare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo.
C’è, però, un caso in cui è la legge stessa ad operare una discriminazione di questa natura, mediante una norma che il più delle volte passa inosservata anche agli occhi di molti addetti ai lavori che ne fanno uso, sebbene non frequentemente nella pratica processuale.
La disciplina dell’astensione e della ricusazione del giudice
Il codice Grandi o Grandi-Calamandrei (dal nome del ministro della giustizia e del celebre giurista), ossia la raccolta di norme che regolano il processo civile e che va sotto il nome ufficiale di “codice di procedura civile”, contiene una disposizione alquanto anomala, singolare anche se raffrontata con le altre norme contenute nello stesso testo legislativo entrato in vigore nel 1940.
Trattasi dell’art. 51, che prevede una serie di circostanze nelle quali il giudice ha l’obbligo di non trattare la causa, perché verrebbe vanificato il principio costituzionale del cosiddetto “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost.
La citata norma costituzionale stabilisce che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Perciò, qualora vi sia il pericolo che questa terzietà ed imparzialità del giudice non sia garantita, la disciplina codicistica appresta delle tutele attraverso l’obbligo di astensione o la possibilità per la parte in giudizio di ricusare il giudice, ossia di chiedere che il magistrato venga sostituito con un altro.
Orbene, il predetto art. 51 c.p.c. elenca una serie di casistiche che, ove sussistenti, impongono al giudice di astenersi. Tra queste risalta quella di cui ai n.ri 2) e 3), che recitano:
“se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;
se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori”
Il codice dà, quindi, per scontato che il giudice sia solo un uomo!
Da una prima lettura è lecito chiedersi se il legislatore è caduto in una disattenzione o se la norma, in vigore nel 1940, era adatta al clima culturale e sociale del tempo, oltre che in armonia con il resto della legislazione.
La ricusazione e l’astensione nella storia
L’istituto dell’astensione, così come quello della ricusazione, affondano le radici nella storia.
Difatti, leggendo i codici del regno d’Italia ed alcuni testi processual-civilistici preunitari, si possono rinvenire disposizioni non dissimili a quella attualmente vigente.
Ad esempio, l’attuale normativa processuale ha sostituito, nel 1940, il codice di procedura civile del 1865, che all’art. 116, n. 3), consentiva la ricusazione del giudice:
“se la moglie di lui sia affine, sino al quarto grado inclusivamente, di una delle parti, o se lo stesso vincolo sussista fra lui e la moglie di una di esse; morta la moglie, la ricusazione sussiste se siavi prole superstite, o si tratti di suocero, genero o cognato”.
proseguiva poi, lo stesso articolo, al punto 4):
“se una quistione identica in diritto debba decidersi in altra lite già istituita e pendente nell’interesse di lui, della moglie, congiunti od affini in linea retta”.
Ancor prima, il “codice di procedura civile per gli stati di Sua Maestà il re di Sardegna“, ossia il codice sabaudo del 1859, riportava la medesima disposizione, testualmente replicata nel testo adottato nel regno d’Italia sei anni dopo.
Volendo inoltrarci in tempi ancora più remoti, negli stati preunitari, troviamo il “Codice per lo regno delle Due Sicilie: Leggi della procedura ne’ giudizj civili” del 1819.
Il testo prevedeva, all’art. 470, n. 2) la possibilità di ricusare ogni giudice
“se la moglie del giudice è consanguinea o affine di una delle parti o se il giudice è consanguineo o affine di una delle parti nel detto grado quando essa viva tutt’ora, o non vivendo, esistano i di lei figli. Anche nel caso di morte della medesima, e di non esistenza di figli, il suocero, il genero ed i cognati non potranno esser giudici”.
Non da ultimo, il codice di procedura civile per gli stati estensi del 1852, ossia la raccolta di norme processuali del Ducato di Modena e Reggio, all’art. 480, contenuto nel paragrafo 2, “Della ricusazione dei giudici allegati sospetti“, del capo II del primo libro, stabilisce la possibilità per ogni giudice di essere ricusato per una serie di cause, tra le quali, ai n.ri 2), 3) e 4):
“Se la moglie del giudice è parente od affine di una delle parti, o se il giudice è parente od affine della moglie di una delle parti nel detto grado, quando la moglie sia vivente, o essendo morta esistano figli di lei: s’ella è morta, e non vi siano figli, il suocero, il genero, i cognati non possono essere giudici;
Se il giudice, la moglie di lui, i loro ascendenti, e discendenti, o affini nella medesima linea hanno una controversia eguale a quella che si agita fra le parti;
Se pende giudizio civile fra il giudice, la moglie di lui, o i loro ascendenti, o discendenti o affini della stessa linea ed alcuna delle parti, sempre che sia stato intentato dalla parte prima dell’introduzione della lite, durante cui ha luogo la ricusazione. In qualunque caso il diritto di ricusare il giudice si verifica anche quando la lite dal giorno della data eccezione in addietro”.
Il Codice di Processura Civile per gli stati di Parma, Piacenza e Guastalla, riporta le medesime norme di cui ai n.ri 2) e 3) dell’omologa legislazione estense, ma all’art. 453.
Dall’esame di queste disposizioni appare evidente che l’art. 51 del c.p.c. attualmente vigente è frutto di una trasposizione di un principio da ordinamenti previgenti.
Le donne in magistratura oggi
L’analisi ora proposta, tuttavia, non appare sufficientemente esaustiva, in quanto se da una parte consente di osservare l’argomento sotto il profilo storico, dall’altra non aiuta a ricostruire il contesto coevo all’emanazione del codice di procedura civile vigente.
E’ certo che l’art. 51 c.p.c. appare oggi oltremodo fuori luogo, specie alla luce dell’attuale contesto sociale e culturale in cui la donna, ormai da tempo, ha assunto un ruolo centrale nella magistratura.
Questo ruolo, tuttavia, era tutt’altro che pacificamente riconosciuto fin dagli albori della Repubblica, come si evince dall’aspro dibattito emerso in seno alla Costituente (nota 1).
Il motivo che ha spinto il legislatore a dare considerazione al solo giudicante di sesso maschile può individuarsi interpretando il periodo storico compreso tra la legge 17 luglio 1919, n. 1176, che pur ammettendo le donne nelle professioni e negli impieghi pubblici, le estrometteva dall’esercizio della giurisdizione, e la Legge 9 febbraio 1963, n. 66, che all’art. 1, comma 1, che ne consentiva espressamente l’accesso “nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge”.
Giova rilevare che nel mezzo di questa parentesi storica entrava in vigore l’ordinamento giudiziario del 1941, che all’art. 8 stabiliva, come requisiti per essere ammessi a svolgere le funzioni giudiziarie, “essere cittadino italiano, di razza italiana, di sesso maschile, ed iscritto al P.N.F.”
Nel 1963 quindi, dopo 23 anni dall’introduzione della norma sull’astensione e la ricusazione dei giudici uomini, il legislatore italiano apriva per la prima volta le porte della magistratura alle donne, sicché otto di loro vinsero il primo concorso bandito con decreto ministeriale 3 maggio 1963 e presero servizio nell’aprile del 1965.
Nel corso degli anni il numero di donne in magistratura è meritatamente cresciuto, così come il ruolo da costoro ricoperto (nota 2)
Concludendo, il motivo per cui la norma che stiamo esaminando appare oggi discriminatoria e, quindi, incostituzionale, è dovuto all’inerzia del legislatore, che nel corso degli anni ha assunto provvedimenti volti a rendere paritario l’accesso delle donne ai pubblici uffici, ivi compresa la magistratura, ma non ha curato la modifica dell’art. 51 c.p.c. per armonizzarlo e adeguarne il tenore ai tempi d’oggi.
Avv. Marco Giudici
(riproduzione riservata)
(Nota 1)
Per approfondimenti v. Latini C., Quaeta non movere. L’ingresso delle donne in magistratura e l’art. 51 della Costituzione. Un’occasione di riflessione sull’accesso delle donne ai pubblici uffici nell’Italia repubblicana, in Giornale di storia costituzionale. Link
(Nota 2)
Lo dimostra, ad esempio, il report dell’ufficio statistico del Consiglio Superiore della Magistratura “Distribuzione per genere del personale di magistratura” al link.
Ho trovato quest’articolo online quando, dovendo firmare una dichiarazione di insussistenza di incompatibilità come commissario di un concorso (anch’essa basata sull’art. 51), ho letto sbalordito la dichiarazione relativa alla moglie: non ho potuto fare a meno di andare in Rete per verificare che non ci fosse un errore nella dichiarazione! Incredibile! In un periodo storico nel quale il politically correct è alle volte esasperato (suggerendo dappertutto e con forza l’uso di asterischi e schwa oltre il limite del sensato) non può che stupirmi come un difetto, non solo di forma ma anche profondamente sostanziale come questo, sia ancora presente nei nostri codici…. Un plauso e un ringraziamento all’Avv.to Giudici per averlo messo in evidenza e così ben circostanziato.